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Bretagna, terra di fari

Dario Giardi ci parla della Bretagna e dei suoi fari,
fonte d'ispirazione del suo primo romanzo "La ragazza del faro".
fari bretagna

L’ispirazione per il mio romanzo d’esordio “La ragazza del faro” è nata nel corso dei vari viaggi che ho fatto in Bretagna. Una Regione che ho finito per amare profondamente tanto da decidere che sarebbe stata la cornice perfetta alla storia che avevo in mente.

Il protagonista è Julien, un trentacinquenne fuggito dall'angosciante monotonia borghese della vita parigina che spera di trovare rifugio in un piccolo villaggio di pescatori della costa bretone. Fra quelle scogliere crede di poter ritrovare se stesso e l'essenza della vita. L'incontro con la bellissima Adèle, di cui si innamorerà perdutamente, e la quotidianità condivisa con il gruppetto di giovani che ancora vive in paese gli riserverà gioie, dolori, e anche una terribile lezione.

ragazza faro Dario GiardiQuesta, in breve, la trama del romanzo. Durante uno dei miei viaggi capitò anche a me di incontrare una ragazza particolare proprio sotto un faro. Un episodio che mi ispirò e che voglio raccontarvi. Prima però vorrei presentarvi alcune suggestioni della Bretagna. In particolare vorrei soffermarmi su uno degli appellativi per cui questa Terra è conosciuta: Terra di Fari. Una caratteristica del paesaggio e dello spirito bretone che ha ispirato anche il titolo del mio romanzo.

Penso che i fari rappresentino un’architettura tra le più suggestive anche per chi frequenta il mare solo d’estate e rigorosamente sotto l’ombrellone: il fascio di luce che ruota spazzando l’orizzonte notturno; l’immagine della torre panoramica al limite estremo della costa, ben in alto, a segnalare il pericolo degli scogli ma anche che la terra è vicina; la presenza umana che si impone alla furia degli elementi, proprio come certi fari isolati davanti alle coste, impavidi nella tempesta.

I fari, simbolo della partenza e del ritorno a casa, da sempre evocano la pace e la potenza della natura. Un vero mito in forma d’architettura, con gli annessi e connessi legati alla figura solitaria e forte del guardiano del faro, per metà marinaio e per metà eremita, che non si muove da terra ma non lascia il mare. Difficile non immedesimarsi anche per un solo attimo in questa figura testimone di storie incredibili, icona della saggezza e della libertà. Più che una professione, il guardiano del faro è la rappresentazione di un modo di vivere e di una concezione dell’esistere che rende l’uomo parte della natura e testimone della sua immensità. In ogni condizione il suo compito è uno solo: non permettere che la luce si spenga, mai. Sembra quasi una metafora della vita.

fari bretagna

La costa del Finistère, il Dipartimento più occidentale della Bretagna, rappresenta un po’ la versione europea della famosa costa atlantica del Maine quanto a numero, importanza e tradizione dei fari. 

Alcuni fari bretoni fanno parte della leggenda, primo tra tutti quello d’Ar-Men, costruito su una minuscola scogliera al largo della Pointe du Raz: la sua costruzione, alla fine dell’800, richiese ben 14 anni di durissimo e pericolosissimo lavoro da parte degli operai. Essi lavoravano aggrappati alle pietre, ritmando l’attività con l’andare e venire delle onde. 

Nella zona il mare è davvero furioso e si narra di guardiani bloccati all’interno del faro per settimane, se non per mesi, fino al placarsi della tempesta.

fari bretagna
Foto di Net Circlion su Flickr

Ma non c’è solo Ar-Men; altri fari furono resi celebri dalle avversità del tempo e dalle difficoltà incontrate nel costruirli.

Basti pensare che il Faro della Jument, nell’isola di Ouessant, durante il primo anno di lavori, poté essere raggiunto solo 17 volte.

Il Faro di Echmuhl, nella Pointe de Penmarc’h, punta meridionale del Finistère, è il secondo in ordine di grandezza in Bretagna (alto 65 metri e con 307 gradini). Nel 1897, per celebrare il suo centenario, tutti i fari suonarono all’unisono la sirena antinebbia.

E per finire, il Faro dell’île Vierge, costruito nel 1902 per sostituirne uno vecchio del 1845 ancora presente, con i suoi 82 metri e mezzo di altezza (se si vuole visitare si devono salire 392 gradini), risulta essere il più alto d’Europa e il più grande del mondo in pietra tagliata. Parrebbe non interessare più a nessuno di questi castelli sull’acqua, con odore d’acqua stagnante, di vita solitaria, di paura. 

Perché, quando erano abitati davvero vi si respirava odore di paura. “Pour quoi l’eau salèe n’ait jamais le goût des larmes” (perché l’acqua salata non abbia mai il sapore delle lacrime). E’ una frase scritta su tutte le T-shirt in vendita nei negozietti bretoni, ma non è uno slogan per attirare i turisti: qui il mare, la sua vita, i suoi dolori, le sue storie, entrano nel vissuto della gente e dei luoghi, come la marea nelle falesie.

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Faro dell'Ile Vierge | foto di remibridot su Flickr

Al posto del mitico “guardiano del faro” vigilano computer e una rete informatizzata. Nella razionale civiltà d’inizio del terzo millennio, fan più paura le petroliere a picco nei fondali oceanici, le macchie di veleno che stuprano acqua e fauna e riducono a melma quello che era pulito, naturale, “normale”. Quelli che se ne intendono e che nei fari ci hanno addirittura lavorato, li dividono in “inferni” e “paradisi”. 

I primi sono quelli sugli scogli dove il mare detta i tempi del rifornimento, del cambio di turno. C’è chi è morto di fame: come Noël Fouquet, bloccato su Ar-Men per 101 giorni dato che le barche non potevano neppure avvicinarsi. Inferni nell’acqua. Gli altri, sui capi delle coste frastagliate o lambiti dalle calde onde del Mediterraneo, erano paradisi. 

A chi importa di tutto ciò oggi, nell’epoca del satellitare, degli elicotteri, del GPS? Eppure i bretoni hanno fatto diventare i loro fari luoghi di memoria e di visita. Come gli ineffabili fari dell’isola di Ouessant, un grappolo di colorate torri sparse a pioggia su un tratto di mare che tu cogli tutto ad occhio nudo dalla punta di Saint Mathieu, sede di un altro onorato faro, ancora funzionante e visitabile. Sovrasta una basilica distrutta dai francesi in vecchie guerre di idee contro altre idee. 

I fari, ancora oggi, sono le luci che animano la notte. Lucciole che ammiccano con scintillii, fasci, intermittenze diverse. Sciabolate “personalizzate” che impediscono di confonderli con altre luci. Tre lampi rossi ogni 15 secondi, è la mitica La Jument.

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Isola di Ouessant | foto di stibou5 su Flickr

Due lampi ogni dieci secondi, invece, è il segnale di Creac’h sul capo occidentale di Ouessant, quello che salva ogni anno, in un senso e nell’altro, oltre 50.000 navi. Si vede da 32 miglia, oltre cinquanta chilometri; è il più potente d’Europa. Forse anche per questo ci hanno messo l’Ecomuseo dei fari. 

Dal 1987, poi, c’è un’altra luce in cima ai 54 metri della sua torre: si vede soltanto dall’alto, perché è dedicata agli uccelli migratori. Anche a vederli dall’esterno ergersi tra la selvaggia natura, i fari restano immagini scolpite nella mente. Ed è facile trovare nelle loro vicinanze, come è capitato a me, una studentessa, accoccolata a terra per evitare il vento, che legga un libro, prepari un esame e intanto arrotondi i suoi guadagni. 

Sta su tutto il giorno e, quando scende l’ultimo visitatore e il sole muore nel mare, chiude la porticina in ferro e scende anche lei. Una normale giornata di lavoro. Come in un museo. Ce ne fossero di questi musei!

Dario Giardi, scrittore, fotografo e musicista, è laureato con lode presso l’Università Luiss di Roma. È autore di guide turistiche, con la casa editrice Polaris di Firenze e con la Lighthouse Publisher di New York, dedicate alla sua grande passione: l’arte e la cultura celtica, etrusca e romana.
Ultimamente sta lavorando alla sceneggiatura di un progetto cinematografico internazionale: un film fantasy/documentario sulla civiltà celtica, prodotto da una casa di produzione svizzera.

www.facebook.com/laragazzadelfaro

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